Si chiama così quando c’è l’inizio ufficiale di un progetto. Il mio capo ci chiama settimana scorsa a questo incontro, siamo una quindicina. Non è che ci sia molto entusiasmo. E’ un progetto che per quanto sia comprensibile per i benefici che porterà all’azienda, non sentiamo molto nostro. Però ci tocca e cerchiamo di fare buon viso a cattivo gioco. Gioco….si infatti, tra le mille cose da fare nei prossimi 12 mesi ci sarà anche questo gioco, e lui, forse per sottolineare la cosa, che cosa fa? Va a prendere un paio di squadre del Subbuteo (chi ha i capelli grigi o assenti dovrebbe ricordarsi di quel gioco sul calcio figlio di un’epoca in cui la playstation era sconosciuta) e distribuisce i giocatori, uno per ognuno dei partecipanti, proprio li, accanto al documento in powerpoint finemente stampato a colori e rilegato con una bella spirale con al presentazione. Lo guardiamo un po’ incuriositi. E’ la prima volta che accade, non vorra mica organizzare una partita sull’enorme tavolo della sala riunioni?!!! “Vi chiederete il significato di questi immagino. E’ un modo per dire che in questo progetto dobbiamo lavorare di squadra. Questa tra l’altro non è la riproduzione di una squadra a caso, ma dell’Italia campione del mondo 4 anni fa. E’ quello lo spirito infatti che dovremo avere per portare a termine questo progetto. Non è impossibile, ma bisogna crederci e lavorare gli uni per gli altri. Idelamente mi sento come Lippi quando distribuisce le maglie prima della partita. Voi siete i migliori giocatori che potevo schierare in ognuono dei vostri ruoli. Singolarmente valete molto, ma insiemepotete diventare imbattibili. Questi giocatori spero siano per voi un porta fortuna. Per me terrò il portiere, in modo da cercare di parare tutti i tiri insidiosi che ci arriveranno. Buon lavoro a tutti.” Mah…..le facce intorno al tavolo erano un po’ stranite. Alcuni hanno colto lo spirito, altri secondo me un po’ meno e lo dimostrano lasciando il gadgettino sul tavolo. Che dire….Intanto l’omino basculante in questo momento mi sta guardando mentre scrivo…….. PS: ma voi l’avete mai avuto un capo così strano?
Archivi del mese: marzo 2010
il kick off
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una tranquilla serata di spinning….
Stasera c’è il pienone con le 34 bikes tutte coperte (Teto e tu dov’eri?). Saluti di rito, pallidi sorrisi, fra qualche minuto incominciamo. Parte la musica, si spengono le luci. Rimane solo la lampada al wood che trasforma i colori in bizzarri contrasti in bianco e nero. Dopo la tranquilla fase di riscaldamento, il ritmo lentamente sale. Passano 15 minuti prima di vedere la prima goccia che dalla fronte cade sul manubrio. Nei 60 minuti successivi ne seguiranno molte altre, fino a formare quella piccola pozza di cui ogni biker è orgoglioso a fine lezione. La lezione è un “interval non codificato”, o almeno così afferma Paolo, peccato che nonostante siano ormai anni che pratico questa disciplina, confesso di fare ancora fatica a capirne la differenza con quello “codificato”. Ora la lezione si fa impegnativa. Serie di jump si alternano in sequenze da 8, 4 e 2, mentre sapientemente l’istruttore propone un’alternativa versione drum based di Madame Butterfly. La musica penetra ossessivamente nel cervello mentre il corpo inizia a sentire la fatica. Inizia il braccio di ferro tra i muscoli che esausti, chiedono di sedersi sul sellino per una tregua e il cervello che ordina di non mollare e continuare a spingere. Le spalle ondeggiano, accompagnando le gambe che alternativamente spingono sui pedali. Mi tiro su le spalline della mia maglia tecnica, non tanto per il caldo quanto per scoprire la parte alta dei bicipiti imperlati di sudore. In fin dei conti è l’unico vezzo da vanesio, insieme alla bandana da pirata, che mi concedo durante le mie sedute. Brevi momenti di recupero sono benedetti come oasi in un deserto, mentre la bottiglia da litro di gatorade viene bevuta avidamente. Siamo arrivati alla parte finale. Il ritmo techno incalza. I movimenti dei 34 bikers che, all’inizio della lezione andavano all’unisono, incominciano a farsi via via più scordinati. Parte lo sprint finale, 20 secondi scanditi da un conto alla rovescia che bastardamente Paolo prolunga ripetendo più volte il meno 3, come un disco incantato. I denti digrignano, le facce si deformano in smorfie tirate dalla fatica. Mentre chiudo gli occhi immaginando di essere come Cipollini sul traguardo di via Roma a Sanremo, mi disinteresso del cardiofrequenzimetro che ormai è stanco di segnalarmi da quanto tempo sia fuori soglia. Non posso mollare adesso. Se devo schiattare che sia, se non altro sarà una fine gloriosa e diventerò la leggenda della palestra. Ciò fortunatamente non avviene anche se le gambe bruciano come non mai. Gli ultimi istanti sentono le urla liberatorie, di uomini, donne, giovani e non, unite in coro in una sorta di collettivo orgasmo agonistico. La musica cambia. Lentamente una versione chill-out di With or without you degli U2 consente al mio organo vitale primario di tornare ad una frequenza più consona. Le luci si accendono, i tacchetti metallici delle scarpette segnalano lo sganciarsi dei piedi dai pedali per permettere la necessaria fase di stretching. Anche questa sera è andata e il polar che ho al polso ne traccia un bilancio statistico. Un’ora e 13 minuti, una frequenza media dell’81%, una punta massima al 98 e 842 le calorie bruciate……per stasera un bel piatto di bucatini alla amatriciana me lo sono proprio guadagnato.
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le atmosfere di Paris
Giornata piena, riunioni discusse in francese, in inglese, in italiano, gesticolando con le mani come solo noi sappiamo fare. Il primo tiepido sole di fine inverno scompare fra i tetti. Il rientro in albergo, via la cravatta, un paio di jeans e fuori, 4 passi lungo la Senna per raggiungere la metrò che ci porta nel cuore del 6° arrondismont. La cena è in un bistrò, mentre un onesto bordeux ci accompagna nei nostri discorsi….il lavoro, le ferie che farai quest’anno, i francesi che a rugby ci sono due spanne sopra…. Raggiungiamo il dessert ed un caffè che, nonostante sia “seret”, lascia molti rimpianti. Gli occhi sono stanchi, lo sguardo non tradisce. On và a l’hotel…..Ecco il metrò, è di quelli con le porte che si aprono ancora con la manovella. Sono le 23 ma è pieno, si fa fatica a sedersi. Frotte di ragazzi col tipico cappello verde vanno a festeggiare San Patrick. Si aprono le porte all’ennesima stazione con le piastrelle bianche, sale lui, giacca in pelle, capello lungo, le rughe intorno agli occhi che tradiscono qualche anno di esperienza in più di me. In una mano ha una fender e un amplificatore nell’altra. Lo appoggia vicino all’ingresso guardandosi intorno, per studiare la platea di questo viaggio, di questa carrozza. Partono le prime note mentre il treno emerge dalla sotteranea per salire sulla sopraelevata. Un sorriso di intesa con il collega conferma che il brano è proprio quello. Ci è andata bene. Di solito troviamo solo rom che con la fisarmonica che storpiano le sonate più famose della Parigi turistica. Le fermate si susseguono lentamente, mentre la voce intonata di questo strano Dave Gilmour rende il suo omaggio a Syd Barret coprendo con le sue note lo stridore delle ruote sui binari. Le luci della città scorrono fuori dai finestrini appena cinque metri sotto di noi. Solo i riflessi dei lampioni sull’acqua lenta del fiume mi ricordano che è arrivato il momento di scendere. Mercì Paris, anche questa sera sei stata generosa.
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Rugby…..
Per motivi personali ho passato un weekend piuttosto difficile. Passare ancor più tempo giocando con mio figlio quindi, si è trasformata in un’esigenza più mia che sua. Ho avuto così modo di passare molto tempo con lui e, per completare le olimpiadi che di solito mi tocca fare per competere con la creatura, dopo la lotta libera, il basket, il calcio, questa settimana era il turno del……Rugby. Non so come infatti, ha recuperato un pallone dei miei trascorsi giovanili (a dire la verità era una palla da football americano, ma comunque fra le tante ho avuto modo di praticare entrambe le discipline) e appena mi ha visto….”papà….partita!”. Ora immaginatevi un gatto di di 97 chili avvinghiato in mischia con un esserino che ne pesa oltre 70 in meno. Non ci siamo fatti mancare nulla. Placcaggi, mischie comandate, punizioni (con il sottoscritto che doveva tenere con un dito la palla mentre lui la calciava verso la porta finestra), mete. Insomma venerdì sera, sabato e domenica passate a rincorrersi per casa con l’ovale sottobraccio. Era buffo perchè quando iniziava lui una azione la chiamava con la mano alzata come se fosse uno schema di basket (al giovanotto devo ancora spiegare qualche fondamentale di questo nobile sport). Alla fine eravamo sudati fradici e naturalmente dovevo pure stare ben attento a non far male alla creatura per non sentirmi le ire di mia moglie…….In compenso ho scoperto che dopo gli ultimi acquisti alla bassetti, il gatto, a suo modo, riesce a essere vicino al cucciolo anche durante la settimana……
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il gatto racconta quando a scuola….
Stamattina, ascoltando la Plati parlare della scuola, mi è venuto in mente il mio percorso scolastico e poi anche quello professionale. Alla fine delle medie infatti, mi sono iscritto ad una scuola grafica molto rinomata qui a Milano. Aveva però qualche controindicazione…..una disciplina ferrea (quando entrava il prof. ad esempio ci si alzava ancora in piedi), un orario lavorativo drammatico per chi ha 15 anni (8 ore al giorno per 5 giorni) ed una selezione severissima. C’erano infatti 3 prime che iniziavano (90 alunni selezionati in base al voto delle medie) e dopo il biennio un “cancello” faceva proseguire i migliori 30 al diploma, mentre per gli altri 60 si aprivano le porte dell’anno di istituto professionale oppure dovevano cercare fortuna in un’altra scuola. Io, che già da allora ero un eccellente mediocre, arrivai 36mo, pur non avendo collezionato neanche una insufficienza alla fine dei due anni. Feci così il mio bel anno di specializzazione e, siccome quell’anno non era valido ai fini del diploma, ripetei la 3° in una scuola serale che, non essendo legalmente riconosciuta, ci obbligava a sostenere gli esami in un istituto di Torino. Alla fine dei miei 6 anni riuscì a conseguire il diploma come privatista con un brillantissimo 37/60. Di far l’università non se ne parlava nemmeno. Un pò per fattori economici, un pò perchè con quel voto non andavo lontano e un pò perchè l’idea di altri 5 anni a fare esami proprio non mi andava. Iniziai a lavorare, ovviamente in nero non avendo ancora fatto il militare. Tra le esperienze ricordo il pony express e il cottimista agli uffici dell’A.C.I. a trascrivere pratiche. Fatto poi il soldato ‘ngoppa au Friuli, trovai il mio primo lavoro in regola. Poco più che un garzone in una fotolito. Passano 3 mesi e cambio, andando a fare l’operaio (specializzato però) in una azienda in provincia di Bergamo a 30 km. da casa. Facevo i turni e quando mi toccava il mattino, la sveglia era puntata alle 4,30. Arrivare al venerdì era veramente difficile. Ci rimasi un annetto, col mio capo di allora che mi cazziava quando arrivavo con 5 minuti di ritardo, prima di approdare finalmente in una casa editrice. Un lavoro da colletto bianco per 6 anni in una multinazionale americana. Mi ricordo che in occasione del mio primo aumento di stipendio (100.000 lire in più al milione e 200 del minimo contrattuale) il mio direttore di produzione, in presenza del mio capo diretto (un quadro che all’epoca aveva 55 anni) mi chiese quali obiettivi avevo per la mia carriera professionale. Risposi, improvvisando, che volevo diventare dirigente prima dei miei 40 anni (all’epoca ne avevo 23) scatenando dei sorrisetti ironici da ambedue i miei interlocutori. Approdai in un’altra casa editrice made in USA (quella del Topo) e continuai il mio percorso di carriera diventando quadro. Altri 4 anni e la seconda casa editrice italiana mi chiama per un ruolo nuovo. Ingegneria di prodotto, lo chiamava pomposamente il mio penultimo capo, responsabile ufficio preventivi, lo chiamavo io. Pensavo di rimanerci 2 o 3 anni……ad aprile sono 11. Da 6 sono il direttore di produzione (con le stellette avute un paio di anni prima dell’ obiettivo) e penso di essere l’unico dirigente del gruppo senza una laurea. Nel frattempo da 4 anni mi hanno chiamato a tenere delle lezioni ad un master sull’editoria (conservo ancora con soddisfazione la prima lettera di incarico dell’Università degli studi di Milano), ho tra i miei collaboratori diversi miei ex compagni di scuola che essendo migliori di me furono scelti nei famosi 30 eletti, i fornitori mi chiamano ingegnere, ho come consulente il mio ex capo che mi cazziava quando arrivavo in ritardo (e a cui ovviamente, sia pur bonariamente, ricambio la gentilezza quando lui si presenta in ritardo alle riunioni), e ho come fornitore l’attuale preside dell’istituto che mi ha “scartato” nonostante nonavessiavutoneancheunainsufficienza. Vuoi mettere la soddisfazione quando gli ho buttato li……”certo che se la politica della scuola fosse stata meno rigida, oggi potreste vantare di aver formato nelle vostre aule il direttore di produzione di una delle più importanti case editrici…..” Insomma, la scuola serve molto ma, fortunatamente, dico io, la vita professionale può dare soddisfazioni anche a prescindere……
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